martedì 2 agosto 2011

29 luglio Kithera - Grambousa

29 luglio Kithera - Grambousa 40 miglia, zero vento.


Calma piatta per il balzo finale dopo una notte passata al lavoro per lanciare il video nel blog. Pido ha fatto le sei, io le 4 (sono più vecchio). Gli altri salpano senza di noi, cadaveri in cuccetta. Mi sveglio alle 10,30, c'è Anti Kithera che sfila vicino, un leone spelacchiato acquattato. Trenta anime ci vivono, cento d'estate. Che posto perso. Qui hanno trovato una nave antica, naufragata malgrado un astrolabio che pare fosse stata una meraviglia da computer.

Due isole iniziano a profilarsi all'orizzonte, Agria (selvaggia) e Imeri (mansueta) Gramvousa. La fortezza è sulla seconda ma non si vede, mimetizzata, rocce su rocce. Ma esiste ancora? E se fosse definitivamente crollata? Persa come tante altre? Beffa, beffa. Scongiuri, ma c'è! Ecco una torretta e le linee delle mura che seguono magistralmente la linea del promontorio inerpicandosi alla fine di una scogliera che toglie il fiato. La vedremo al tramonto io e Pido, dopo esserci inerpicati come muli mediatici. Ma prima c'è da ormeggiare in una baietta dove l'acqua è trasparente e spunta un relitto di una vecchia nave che portava cemento chissà dove. I barconi dei turisti stanno al molo, noi indugiamo aspettando che se ne vadano. La fortezza progettata da Latino Orsini e realizzata nel 1584 da 100 muratori, altrettanti spezzamonti, 300 angarici (contadini angariati) 400 galeotti, poteva aspettare. Prima c'era il bagno esploratore al relitto pare di una nave libanese naufragata nel 1981 a due passi dalla spiaggia di Kalyviani. L'elica di bronzo è ancora sommersa, la poppa spezzata affonda. Alle cinque de la tarde i turisti se ne vanno e possiamo affrontare la scalata dopo un ormeggio al volo non proprio perfetto visto che mi ha visto protagonista. Appesantiti da zaino e cavalletto iniziamo la scalata, novelli Don Chisciotte e Sancho Panza (chi sono io?). Incrociamo prima Robinson, un greco dall'ampia pancia, jeans corti e bastone che si muove come il padrone dell'isola, e poi Billy the Kid, giovinastro con fucile in spalla che poi vedremo in azione a impallinare conigli selvatici, con le capre gli unici mammiferi dell'isola. La salita è impervia, in mezz'ora però sei in cima. Un contrafforte protegge l'entrata restaurata, prima però c'è il leone: è in marmo, potente, in rilievo, due zampe rubate, la criniera che gli scende sul patto, il muso che ti guarda a fauci spalancate, i canini a mostrare piglio guerriero, gli occhi vuoti che ti guardano per sempre da terra, abbandonato. Forse avevano tentato di rubarlo, e sono riusciti solo a toglierlo da sopra l'arco del portone d'ingresso. Uno scudo con un ponte in rilievo gli sta a fianco, il mozzicone di una zampa forse lo teneva lassù. Entriamo e ci perdiamo nell'ampio pianoro. Case e caserme non esistono più, solo una chiesa mezza diroccata rompe la spianata che un tempo ospitava soldati e poi anche pirati. I veneziani l'abbandonarono nel 1692 o forse più tardi, nel 1715, insieme a Suda e Spinalonga, gli altri ultimi scogli della Serenissima. Ma questo era il più selvaggio e perso, l'ultimo approdo possibile prima di finire in Libia. Se perdevi il vento o non riuscivi a stringere abbastanza sul Meltemi, saresti andato dritto in Africa.

Il giorno dopo avremmo vissuto l'ultima galoppata verso Kastelli - Kissamous, 8 miglia di bel vento per doppiare capo Buso con qualche fatica (troppa onda) e la voglia di arrivare a terra prima della festa di benvenuto. Ma ora c'era da vivere questo baluardo assurdo. I tartari non sarebbero mai arrivati fin qui dove i veneziani sfidarono la natura e la noia con un'opera che sembra impossibile. Segui le mura di pietre grigie che virano anche al blu, legate insieme da calce e da un fregio, e arrivi dove il salto è nel vuoto. Ti attira. Ti vuole. Laggiù, cento metri più sotto, il mare muggisce, le onde si frangono sulle rocce. Il vento riempie il cielo e ogni tanto raffica per ghermirci. Solo due falchi ci fanno compagnia. Il sole lentamente tramonta sul mare. Il buio non ci può cogliere lassù. Ci muoviamo per scendere verso Arina, la nostra barca. L'ultimo scoglio della Serenissima torna nell'oblio.




28 luglio Cerigo

28 luglio Cerigo


Alba (più o meno) in fortezza ad aspettare che apra. Il paese è incantevole, silenzioso e ancora assonnato. Esploriamo il posto veneziano, chiese e segni ancora di edifici militari. Restauri forse un po' affrettati, ma la vista che disegnano le mura è da mozzare il respiro. Non mi stanco di gettare lo sguardo in quel mare che s'apre verso il nostro obiettivo, Gambousa, Grabusa o Granbusa per i veneziani, l'ultimo scoglio della Serenissima.

Torniamo dopo uno stand up finalmente breve (solo 4 prove) e col caldo che inizia a mordere. Ci accoglie la delegazione al gran completo del comune di Khitera: il sindaco Thodoros Koukoullis (un signore distinto con occhiali e baffetto, che parla un buon inglese ed è innamorato della sua terra), il vice Nikolaos Megalokonomos, il presidente del consiglio Lazaros Vezos. Il lavoro di Marco Polo System e il tam tam della rete hanno acceso molto interesse in questi lidi per la nostra avventura. Un giornalista locale, fotografa l'incontro, ma anche a Creta già si parla di noi su stampa e tv. Noi però siamo alle prese con l'ora e l'adesso, sempre poco tempo e molto da registrare, capire, documentare. E' quasi un impegno morale nei confronti di gente e luoghi che ci rapiscono, vogliamo raccontarli al meglio, trasmettere l'entusiasmo che ci danno. "Khitera era un altro occhio della Repubblica, grazie a Venezia è arrivata la cultura e la prosperità - racconta il sindaco - moltissimo ci lega ancora a voi, anche nella vita di ogni giorno, nella cucina (c'è un pasticcio alla veneziana che cucinano solo le nostre donne, in casa, non è cosa per turisti) e nelle parole che utilizziamo ogni giorno . La vita è ancora serena, anche se è ogni giorno più difficile. Amministrare 66 villaggi sparsi per un territorio grande come Malta non è facile, e Atene ci ha tagliato i fondi alla metà. E dobbiamo amministrare anche Anti Khitera, 30 abitanti, l'isoletta qui vicino. Ma ce la faremo a superare anche questa". Ci regalano una medaglia ricordo e una storia su Afrodite un po' ... partigiana: "Qui è nata la dea, celeste e urania", fa il sindaco facendo intendere che era ancora illibata. "Poi è andata a Cipro e per mare ed è diventata di tutti". E ha fatto bene a molti.

Dopo l'incontro ufficiale rompete le righe con bagno da ricordare e nuotata fino al canyon sotto la fortezza, spiaggia di ciottoli a scaldarti le membra stanche. Il ritorno è duro, ma in barca c'è una sorpresa: ci è venuto a trovare Byron Da Ponte, 85 anni, l'ultimo erede di una famiglia di serenissima schiatta: "Noi facevamo i ponti di Venezia, da questo lavoro deriva il nostro nome. Qui ci stabilimmo secoli fa - spiega questo signore distinto ed energico che sale in barca di slancio e racconta in un italiano forbito e appena toccato dall'accento greco - e anche nelle isole e a Creta. Vantiamo un doge, Antonio, eletto alla metà del 1500. Vedi questo è il suo simbolo". Uno scudo con un ponte in rilievo che ritroveremo anche a Grambusa. Byron racconta, sembra un'enciclopedia vivente. La sua memoria affonda e risale nei secoli quasi seguendo la vitalità che nel pomeriggio ci porterà a scoprire con lui un altro gioiello veneziano di Cerigo, il castello di Mesopotamos, che sta in un borgo antico quasi al centro dell'isola perso tra ulivi e cicale. Un leone orgoglioso sormonta l'entrata del forte che in alcuni punti ha le mura incorporate da case. Sotto stanno due stemmi, si dice del signore franco che sposò una dama veneziana dando il La alla presenza serenissima. I numeri romani riportano una data: 1515. "I miei compatrioti di qui, quando la Repubblica cadde nel 1797, erano pronti a ospitare il governo veneziano in esilio, le sette isole dello Ionio potevano servire da riscossa contro gli invasori francesi, in molti si ribellarono a quella fine ingloriosa e qui i francesi non vennero mai come i turchi. Gli inglesi sì, fummo loro protettorato per anni, fino all'indipendenza nel 1864". Byron prima ci aveva portato a casa sua a Chora, scaletta e atrio sfolgorante di fiori, una piccola chiesa a impreziosirlo, a vedere lo scudo di marco di famiglia in fregio. Poi la galoppata con la sua auto un po' scassata verso questo villaggio dimenticato. Mesopotamos è un incanto e un mistero. Ma, sopratutto, un testimone di una vita dura e agreste, quella di secoli fa. "Quella è la cisterna dove si portava l'uva da pestare, e qui, in questa canaletta, scorreva il vino che andava a finire nelle botti - racconta questo gran signore che un tempo (1975) è stato anche sindaco di Cerigo, e per 12 anni - là si mettevano le bestie o c'erano i depositi degli alimenti", svela entrando negli scheletri di queste vecchie case sorprendentemente piccole. Lui sale le scale pericolanti con agilità che ci spiazza e racconta, racconta come un aedo della sua vita, della vita di questo posto, della Venezia che vide e sogna. Un libro servirebbe solo per lui.











27 luglio Porto Kayio - Khitera (Cerigo in veneziano)

27 luglio Porto Kayio - Khitera (Cerigo in veneziano), 35 miglia circa, vento da Sud Est sui 20 nodi, navigazione a motore nella seconda parte del viaggio


Altra alba, solo in barca riesco a prendere il primo sole, Mah!. In quattro ancora prendiamo il gommone e curiosiamo questo angolo di paradiso solo spezzato da un paio di ristoranti. Enrico e Sonia stanno di vedetta. Pido non alpeggia, noi tre sì e finiamo in un borghetto abbandonato in cima alla collina ad ammirare la torre di pietra grigia e le case intorno cadenti e sbrecciate. Domina anche l'altro mare questo posto abbandonato che forse ospitò eredi di Sparta.

Torniamo in tempo e salpiamo in fretta verso Cerigo, 35 miglia più a Sud, isola avamposto dello Ionio e di Venezia per quasi cinque secoli annunciata dallo scoglio Uovo. E' una navigazione che parte bene (cioè col vento) e finisce male (a motore). L'isola dove nacque Afrodite Venere si annuncia pelata e osteggiata da grotte, il porto si apre dopo un promontorio e un faro dominati da una fortezza salda e dirupata, un altro bastione da togliere il fiato che domina il villaggio vecchio di Chora, case bianche e finestre blu come solo nell'Egeo. Ormeggiamo e facciamo in tempo ad affittare uno scooter e fare riprese di questo castello al tramonto. Dentro solo per un respiro, poi il guardiano ci sbatte fuori, severo. E' bello il posto. Magico.







26 luglio Corone - Porto Quaglio o Caio (Kayio in greco, Mani)


26 luglio Corone - Porto Quaglio o Caio (Kayio in greco, Mani), 35 miglia, vento da Sud Ovest e Ponente, meno onda. Doppiato capo Matapan senza problemi.


L'alba ci accoglie, colazione e in quattro fuggiamo in paese in gommone a prenderci l'ultimo occhio della Repubblica. Marco e Caterina presto scompaiono, più veloci e liberi. Io e Pido dobbiamo scrutare, filmare, fotografare, filtrare questo posto verace che s'allunga verso la fortezza in callette e scale lasciando a intravedere il mare. Trovo un leone quasi per caso, sta quasi a livello della strada d'asfalto, in cima alla collina, nascosto da un motorino e da piante. Segna in maniera inconfondibile una costruzione che sembra una cisterna o una fontana. La pietra è corrosa e sembra granito. Dei vecchi ci guardano un po' stupiti, tante storie per un simbolo assurdo, un leone con le ali, ma dove s'è visto mai! E se sapessero quante polemiche e ignoranze oggi si porta dietro... Salgo verso la fortezza che verso terra s'apre a tenaglia con spigoli e rondelle che si saldano alla cinta antica. Arrivo alla porta, ancora maestosa e molto turchesca, e sparo un po' di foto della baia e della nostra barca laggiù. Scendo sul molo, il tempo stringe, c'è poco da scherzare col capitano. Anche se il vento è calato c'è da doppiare il temibile capo Matapan, teatro dell'ultima battaglia navale della Serenissima contro i turchi all'inizio del XVII secolo. Pescatori vendono le loro prede stancamente. Mi fanno vedere un'aguglia che qui dovrebbero chiamare labatos, se ho capito bene. Sembra un'anguilla dal becco lungo. Si parte, a motore, verso il Mani, il secondo ditone del Peloponneso. Esche in mare, si traina oziosamente attendendo il vento. Dopo circa tre ore invece abbocca qualcosa, io non ci credo, penso sempre a un copertone d'alto bordo, invece Marco ed Enrico tirano sul gommone un altro tonno, più scuro, più pesante: 13-14 chili. mai vista una pesca così. Questa volta cerchiamo di non fare una tonnara e lo lasciamo morire lì fuori, in fretta, per poi appenderlo alla maniglia della bussola a sgocciolare il suo sangue che sembra così umano. Foto, ma oggi il trofeo sembra più pesante non solo metaforicamente. Doppiamo il Matapan e la porta degli inferi del Tenaro verso le 18, il mare non ci aggredisce, anzi, il vento s'è alzato e ci porta di volata verso il nostro rifugio per la notte, porto Kayio, che i veneziani pare chiamassero Quaglio per via delle quaglie che si cacciavano e mettevano sotto sale da queste parti. Posto strano il Mani, brullo e aspro come la Sardegna, una tavolozza di colori tenui e profumi di erbe selvatiche, un posto estremo, ultima Thule. Bello di una forza selvaggia che catturò anche Fermor, che stava a Kardamili proprio dove dovrebbe essere sepolto il grande scrittore britannico della Patagonia Chatwin. Anni fa, in un altro viaggio, questa volta via terra, con Giannakis, Chiara e Claudia cercai di incontrare l'autore di Mani, il libro su questa posto dirupato dove la gente viveva in torri ed è sempre stata libera. Venezia o Istanbul, basta che non rompano, questo poteva essere il loro motto di guerrieri e pastori e pirati fieri. A porto Kayio, ormeggio non facile in baietta piccola con tre altre barche alla fonda con ancora adagiata sul fondo (un veliero d'antan faceva bella mostra di se) e vento di traverso da Nord Ovest. Risolviamo con un corpo morto pescato da Marco a circa 5 metri sotto. Brandeggia la barca, ma ormai noi siamo a posto gli altri chissà. E inizia il gioco degli sguardi tra capitani, sperono io o lui? Io osservo la baia, punteggiata da vecchie case di pietra che scorgi sul pendio delle colline intorno a fatica, c'è anche un monumento che ricorda un famoso pirata maniota, Katsonis. Ma noi siamo più affascinati dalle tante torri che sorgono sui declivi della penisola e dal monastero che sta sul versante Nord. Qui i borghi antichi, molti abbandonati, non hanno campanili, ma difese. Irti fanno memoria di un tempo finito. Ora nemmeno il turismo riesce a restaurarli tutti. Cena a base di? Tonno, ovviamente, e c'è chi inizia a non poterne più (non io).


25 luglio Pilos - Corone 30


25 luglio Pilos - Corone 30 miglia

vento da ovest sui 30 nodi con raffiche di catabico (vento da terra, da kato, giù) a 40 nodi.


A poche miglia da Pilos e dalle suggestioni di Nestore e dalla strage di Navarino, sorge Modon, Methoni in greco. Un castello. Una meraviglia che s'allunga sul mare a mezzogiorno con un molo che finisce in una torre ottagonale dal tetto rotondo che ricorda vagamente una moschea. La sentinella di pietra è una creazione dei turchi a chiudere e difendere la baia che un tempo ospitava decine di galee. Arrotondata e nello stesso tempo irta, questa sentinella di pietra guarda il baluardo che fa da testuggine del castello che fu bizantino e veneziano per secoli fin dal 1204, l'anno del sacco di Costantinopoli da parte dei "crociati" capitanati da Enrico Dandolo. Modone è uno dei due occhi della repubblica, con Corone formava una coppia possente e accogliente per le navi che puntavano verso Creta o l'Italia. Due occhi spalancati alla fine della penisola della Messenia, vigilavano. Ripresa da Morosini nel 1686, Modone fu ripersa da Venezia con la seconda guerra di Morea con tutto il resto di questo regno effimero. Ma ancora oggi porta orgogliosa i segni di questo passato, decine di leoni costellano mura e baluardi, rondelle e torrioni che s'allungano com un corno verso la campagna. E sfiorando l'isola di Sapienza arrivando dal mare ne scorgo un altro, lassù, sulla torre. Ma non è tempo di nuove esplorazioni, un bagno nell'acqua trasparente e increspata dal vento che monta fuori e si riparte, Corone ci aspetta. Saranno una ventina di miglia di mare e di onda, navigati soprattuto di lasco. Si balla, si lavora, si evita di andare sotto per non finire sottosopra. Doppiando capo Gallo si comincia a cercare con lo sguardo la fortezza, ma è ancora lontana. Poi si profila, bastioni alti dieci quindici metri, a strapiombo, e le mura a correre intorno. E' uno spettacolo vederla dal mare, la dimensione più giusta per apprezzarne la forza. Ancoriamo nella baietta di fronte al villaggio di case bianche basse e finestre colorate, il molo antico lo stanno armando di nuovo di difese dalle acque ma è ancora inutile, troppo vicino alle scogliere. Il vento s'attenua solo alla sera, stiamo in barca, protetti ed esposti alla natura nello stesso tempo. Mi piace questa dimensione, anche se sono un po' goffo, quest'isola diventa presto la mia casa. Dormo da Dio e mi alzo all'alba, mi culla e mi dà energia. Arina inizia a piacermi, con le barche è un po' come per gli umani, bisogna annusarsi per capirsi e trovarsi. Provare, affidarsi. E' solida ma filante, comandi essenziali, senza avvolgi-troppo, respira bene al vento e la senti che vibra con le dita e i piedi. Ha una sua personalità, non indugia troppo sulla coperta all'ozio (e questo è un male, perché dormire da quelle parti è bello) ma sottocoperta t'accoglie bene, anche in sei, anche nelle cuccette che sembrano un po' abitacoli da Soyuz. E poi va anche oltre i suoi limiti, che dovrebbero essere 7-8 nodi, rimonta il vento. Ma quella sera soprattutto eravamo a posto.