martedì 2 agosto 2011

29 luglio Kithera - Grambousa

29 luglio Kithera - Grambousa 40 miglia, zero vento.


Calma piatta per il balzo finale dopo una notte passata al lavoro per lanciare il video nel blog. Pido ha fatto le sei, io le 4 (sono più vecchio). Gli altri salpano senza di noi, cadaveri in cuccetta. Mi sveglio alle 10,30, c'è Anti Kithera che sfila vicino, un leone spelacchiato acquattato. Trenta anime ci vivono, cento d'estate. Che posto perso. Qui hanno trovato una nave antica, naufragata malgrado un astrolabio che pare fosse stata una meraviglia da computer.

Due isole iniziano a profilarsi all'orizzonte, Agria (selvaggia) e Imeri (mansueta) Gramvousa. La fortezza è sulla seconda ma non si vede, mimetizzata, rocce su rocce. Ma esiste ancora? E se fosse definitivamente crollata? Persa come tante altre? Beffa, beffa. Scongiuri, ma c'è! Ecco una torretta e le linee delle mura che seguono magistralmente la linea del promontorio inerpicandosi alla fine di una scogliera che toglie il fiato. La vedremo al tramonto io e Pido, dopo esserci inerpicati come muli mediatici. Ma prima c'è da ormeggiare in una baietta dove l'acqua è trasparente e spunta un relitto di una vecchia nave che portava cemento chissà dove. I barconi dei turisti stanno al molo, noi indugiamo aspettando che se ne vadano. La fortezza progettata da Latino Orsini e realizzata nel 1584 da 100 muratori, altrettanti spezzamonti, 300 angarici (contadini angariati) 400 galeotti, poteva aspettare. Prima c'era il bagno esploratore al relitto pare di una nave libanese naufragata nel 1981 a due passi dalla spiaggia di Kalyviani. L'elica di bronzo è ancora sommersa, la poppa spezzata affonda. Alle cinque de la tarde i turisti se ne vanno e possiamo affrontare la scalata dopo un ormeggio al volo non proprio perfetto visto che mi ha visto protagonista. Appesantiti da zaino e cavalletto iniziamo la scalata, novelli Don Chisciotte e Sancho Panza (chi sono io?). Incrociamo prima Robinson, un greco dall'ampia pancia, jeans corti e bastone che si muove come il padrone dell'isola, e poi Billy the Kid, giovinastro con fucile in spalla che poi vedremo in azione a impallinare conigli selvatici, con le capre gli unici mammiferi dell'isola. La salita è impervia, in mezz'ora però sei in cima. Un contrafforte protegge l'entrata restaurata, prima però c'è il leone: è in marmo, potente, in rilievo, due zampe rubate, la criniera che gli scende sul patto, il muso che ti guarda a fauci spalancate, i canini a mostrare piglio guerriero, gli occhi vuoti che ti guardano per sempre da terra, abbandonato. Forse avevano tentato di rubarlo, e sono riusciti solo a toglierlo da sopra l'arco del portone d'ingresso. Uno scudo con un ponte in rilievo gli sta a fianco, il mozzicone di una zampa forse lo teneva lassù. Entriamo e ci perdiamo nell'ampio pianoro. Case e caserme non esistono più, solo una chiesa mezza diroccata rompe la spianata che un tempo ospitava soldati e poi anche pirati. I veneziani l'abbandonarono nel 1692 o forse più tardi, nel 1715, insieme a Suda e Spinalonga, gli altri ultimi scogli della Serenissima. Ma questo era il più selvaggio e perso, l'ultimo approdo possibile prima di finire in Libia. Se perdevi il vento o non riuscivi a stringere abbastanza sul Meltemi, saresti andato dritto in Africa.

Il giorno dopo avremmo vissuto l'ultima galoppata verso Kastelli - Kissamous, 8 miglia di bel vento per doppiare capo Buso con qualche fatica (troppa onda) e la voglia di arrivare a terra prima della festa di benvenuto. Ma ora c'era da vivere questo baluardo assurdo. I tartari non sarebbero mai arrivati fin qui dove i veneziani sfidarono la natura e la noia con un'opera che sembra impossibile. Segui le mura di pietre grigie che virano anche al blu, legate insieme da calce e da un fregio, e arrivi dove il salto è nel vuoto. Ti attira. Ti vuole. Laggiù, cento metri più sotto, il mare muggisce, le onde si frangono sulle rocce. Il vento riempie il cielo e ogni tanto raffica per ghermirci. Solo due falchi ci fanno compagnia. Il sole lentamente tramonta sul mare. Il buio non ci può cogliere lassù. Ci muoviamo per scendere verso Arina, la nostra barca. L'ultimo scoglio della Serenissima torna nell'oblio.




28 luglio Cerigo

28 luglio Cerigo


Alba (più o meno) in fortezza ad aspettare che apra. Il paese è incantevole, silenzioso e ancora assonnato. Esploriamo il posto veneziano, chiese e segni ancora di edifici militari. Restauri forse un po' affrettati, ma la vista che disegnano le mura è da mozzare il respiro. Non mi stanco di gettare lo sguardo in quel mare che s'apre verso il nostro obiettivo, Gambousa, Grabusa o Granbusa per i veneziani, l'ultimo scoglio della Serenissima.

Torniamo dopo uno stand up finalmente breve (solo 4 prove) e col caldo che inizia a mordere. Ci accoglie la delegazione al gran completo del comune di Khitera: il sindaco Thodoros Koukoullis (un signore distinto con occhiali e baffetto, che parla un buon inglese ed è innamorato della sua terra), il vice Nikolaos Megalokonomos, il presidente del consiglio Lazaros Vezos. Il lavoro di Marco Polo System e il tam tam della rete hanno acceso molto interesse in questi lidi per la nostra avventura. Un giornalista locale, fotografa l'incontro, ma anche a Creta già si parla di noi su stampa e tv. Noi però siamo alle prese con l'ora e l'adesso, sempre poco tempo e molto da registrare, capire, documentare. E' quasi un impegno morale nei confronti di gente e luoghi che ci rapiscono, vogliamo raccontarli al meglio, trasmettere l'entusiasmo che ci danno. "Khitera era un altro occhio della Repubblica, grazie a Venezia è arrivata la cultura e la prosperità - racconta il sindaco - moltissimo ci lega ancora a voi, anche nella vita di ogni giorno, nella cucina (c'è un pasticcio alla veneziana che cucinano solo le nostre donne, in casa, non è cosa per turisti) e nelle parole che utilizziamo ogni giorno . La vita è ancora serena, anche se è ogni giorno più difficile. Amministrare 66 villaggi sparsi per un territorio grande come Malta non è facile, e Atene ci ha tagliato i fondi alla metà. E dobbiamo amministrare anche Anti Khitera, 30 abitanti, l'isoletta qui vicino. Ma ce la faremo a superare anche questa". Ci regalano una medaglia ricordo e una storia su Afrodite un po' ... partigiana: "Qui è nata la dea, celeste e urania", fa il sindaco facendo intendere che era ancora illibata. "Poi è andata a Cipro e per mare ed è diventata di tutti". E ha fatto bene a molti.

Dopo l'incontro ufficiale rompete le righe con bagno da ricordare e nuotata fino al canyon sotto la fortezza, spiaggia di ciottoli a scaldarti le membra stanche. Il ritorno è duro, ma in barca c'è una sorpresa: ci è venuto a trovare Byron Da Ponte, 85 anni, l'ultimo erede di una famiglia di serenissima schiatta: "Noi facevamo i ponti di Venezia, da questo lavoro deriva il nostro nome. Qui ci stabilimmo secoli fa - spiega questo signore distinto ed energico che sale in barca di slancio e racconta in un italiano forbito e appena toccato dall'accento greco - e anche nelle isole e a Creta. Vantiamo un doge, Antonio, eletto alla metà del 1500. Vedi questo è il suo simbolo". Uno scudo con un ponte in rilievo che ritroveremo anche a Grambusa. Byron racconta, sembra un'enciclopedia vivente. La sua memoria affonda e risale nei secoli quasi seguendo la vitalità che nel pomeriggio ci porterà a scoprire con lui un altro gioiello veneziano di Cerigo, il castello di Mesopotamos, che sta in un borgo antico quasi al centro dell'isola perso tra ulivi e cicale. Un leone orgoglioso sormonta l'entrata del forte che in alcuni punti ha le mura incorporate da case. Sotto stanno due stemmi, si dice del signore franco che sposò una dama veneziana dando il La alla presenza serenissima. I numeri romani riportano una data: 1515. "I miei compatrioti di qui, quando la Repubblica cadde nel 1797, erano pronti a ospitare il governo veneziano in esilio, le sette isole dello Ionio potevano servire da riscossa contro gli invasori francesi, in molti si ribellarono a quella fine ingloriosa e qui i francesi non vennero mai come i turchi. Gli inglesi sì, fummo loro protettorato per anni, fino all'indipendenza nel 1864". Byron prima ci aveva portato a casa sua a Chora, scaletta e atrio sfolgorante di fiori, una piccola chiesa a impreziosirlo, a vedere lo scudo di marco di famiglia in fregio. Poi la galoppata con la sua auto un po' scassata verso questo villaggio dimenticato. Mesopotamos è un incanto e un mistero. Ma, sopratutto, un testimone di una vita dura e agreste, quella di secoli fa. "Quella è la cisterna dove si portava l'uva da pestare, e qui, in questa canaletta, scorreva il vino che andava a finire nelle botti - racconta questo gran signore che un tempo (1975) è stato anche sindaco di Cerigo, e per 12 anni - là si mettevano le bestie o c'erano i depositi degli alimenti", svela entrando negli scheletri di queste vecchie case sorprendentemente piccole. Lui sale le scale pericolanti con agilità che ci spiazza e racconta, racconta come un aedo della sua vita, della vita di questo posto, della Venezia che vide e sogna. Un libro servirebbe solo per lui.











27 luglio Porto Kayio - Khitera (Cerigo in veneziano)

27 luglio Porto Kayio - Khitera (Cerigo in veneziano), 35 miglia circa, vento da Sud Est sui 20 nodi, navigazione a motore nella seconda parte del viaggio


Altra alba, solo in barca riesco a prendere il primo sole, Mah!. In quattro ancora prendiamo il gommone e curiosiamo questo angolo di paradiso solo spezzato da un paio di ristoranti. Enrico e Sonia stanno di vedetta. Pido non alpeggia, noi tre sì e finiamo in un borghetto abbandonato in cima alla collina ad ammirare la torre di pietra grigia e le case intorno cadenti e sbrecciate. Domina anche l'altro mare questo posto abbandonato che forse ospitò eredi di Sparta.

Torniamo in tempo e salpiamo in fretta verso Cerigo, 35 miglia più a Sud, isola avamposto dello Ionio e di Venezia per quasi cinque secoli annunciata dallo scoglio Uovo. E' una navigazione che parte bene (cioè col vento) e finisce male (a motore). L'isola dove nacque Afrodite Venere si annuncia pelata e osteggiata da grotte, il porto si apre dopo un promontorio e un faro dominati da una fortezza salda e dirupata, un altro bastione da togliere il fiato che domina il villaggio vecchio di Chora, case bianche e finestre blu come solo nell'Egeo. Ormeggiamo e facciamo in tempo ad affittare uno scooter e fare riprese di questo castello al tramonto. Dentro solo per un respiro, poi il guardiano ci sbatte fuori, severo. E' bello il posto. Magico.







26 luglio Corone - Porto Quaglio o Caio (Kayio in greco, Mani)


26 luglio Corone - Porto Quaglio o Caio (Kayio in greco, Mani), 35 miglia, vento da Sud Ovest e Ponente, meno onda. Doppiato capo Matapan senza problemi.


L'alba ci accoglie, colazione e in quattro fuggiamo in paese in gommone a prenderci l'ultimo occhio della Repubblica. Marco e Caterina presto scompaiono, più veloci e liberi. Io e Pido dobbiamo scrutare, filmare, fotografare, filtrare questo posto verace che s'allunga verso la fortezza in callette e scale lasciando a intravedere il mare. Trovo un leone quasi per caso, sta quasi a livello della strada d'asfalto, in cima alla collina, nascosto da un motorino e da piante. Segna in maniera inconfondibile una costruzione che sembra una cisterna o una fontana. La pietra è corrosa e sembra granito. Dei vecchi ci guardano un po' stupiti, tante storie per un simbolo assurdo, un leone con le ali, ma dove s'è visto mai! E se sapessero quante polemiche e ignoranze oggi si porta dietro... Salgo verso la fortezza che verso terra s'apre a tenaglia con spigoli e rondelle che si saldano alla cinta antica. Arrivo alla porta, ancora maestosa e molto turchesca, e sparo un po' di foto della baia e della nostra barca laggiù. Scendo sul molo, il tempo stringe, c'è poco da scherzare col capitano. Anche se il vento è calato c'è da doppiare il temibile capo Matapan, teatro dell'ultima battaglia navale della Serenissima contro i turchi all'inizio del XVII secolo. Pescatori vendono le loro prede stancamente. Mi fanno vedere un'aguglia che qui dovrebbero chiamare labatos, se ho capito bene. Sembra un'anguilla dal becco lungo. Si parte, a motore, verso il Mani, il secondo ditone del Peloponneso. Esche in mare, si traina oziosamente attendendo il vento. Dopo circa tre ore invece abbocca qualcosa, io non ci credo, penso sempre a un copertone d'alto bordo, invece Marco ed Enrico tirano sul gommone un altro tonno, più scuro, più pesante: 13-14 chili. mai vista una pesca così. Questa volta cerchiamo di non fare una tonnara e lo lasciamo morire lì fuori, in fretta, per poi appenderlo alla maniglia della bussola a sgocciolare il suo sangue che sembra così umano. Foto, ma oggi il trofeo sembra più pesante non solo metaforicamente. Doppiamo il Matapan e la porta degli inferi del Tenaro verso le 18, il mare non ci aggredisce, anzi, il vento s'è alzato e ci porta di volata verso il nostro rifugio per la notte, porto Kayio, che i veneziani pare chiamassero Quaglio per via delle quaglie che si cacciavano e mettevano sotto sale da queste parti. Posto strano il Mani, brullo e aspro come la Sardegna, una tavolozza di colori tenui e profumi di erbe selvatiche, un posto estremo, ultima Thule. Bello di una forza selvaggia che catturò anche Fermor, che stava a Kardamili proprio dove dovrebbe essere sepolto il grande scrittore britannico della Patagonia Chatwin. Anni fa, in un altro viaggio, questa volta via terra, con Giannakis, Chiara e Claudia cercai di incontrare l'autore di Mani, il libro su questa posto dirupato dove la gente viveva in torri ed è sempre stata libera. Venezia o Istanbul, basta che non rompano, questo poteva essere il loro motto di guerrieri e pastori e pirati fieri. A porto Kayio, ormeggio non facile in baietta piccola con tre altre barche alla fonda con ancora adagiata sul fondo (un veliero d'antan faceva bella mostra di se) e vento di traverso da Nord Ovest. Risolviamo con un corpo morto pescato da Marco a circa 5 metri sotto. Brandeggia la barca, ma ormai noi siamo a posto gli altri chissà. E inizia il gioco degli sguardi tra capitani, sperono io o lui? Io osservo la baia, punteggiata da vecchie case di pietra che scorgi sul pendio delle colline intorno a fatica, c'è anche un monumento che ricorda un famoso pirata maniota, Katsonis. Ma noi siamo più affascinati dalle tante torri che sorgono sui declivi della penisola e dal monastero che sta sul versante Nord. Qui i borghi antichi, molti abbandonati, non hanno campanili, ma difese. Irti fanno memoria di un tempo finito. Ora nemmeno il turismo riesce a restaurarli tutti. Cena a base di? Tonno, ovviamente, e c'è chi inizia a non poterne più (non io).


25 luglio Pilos - Corone 30


25 luglio Pilos - Corone 30 miglia

vento da ovest sui 30 nodi con raffiche di catabico (vento da terra, da kato, giù) a 40 nodi.


A poche miglia da Pilos e dalle suggestioni di Nestore e dalla strage di Navarino, sorge Modon, Methoni in greco. Un castello. Una meraviglia che s'allunga sul mare a mezzogiorno con un molo che finisce in una torre ottagonale dal tetto rotondo che ricorda vagamente una moschea. La sentinella di pietra è una creazione dei turchi a chiudere e difendere la baia che un tempo ospitava decine di galee. Arrotondata e nello stesso tempo irta, questa sentinella di pietra guarda il baluardo che fa da testuggine del castello che fu bizantino e veneziano per secoli fin dal 1204, l'anno del sacco di Costantinopoli da parte dei "crociati" capitanati da Enrico Dandolo. Modone è uno dei due occhi della repubblica, con Corone formava una coppia possente e accogliente per le navi che puntavano verso Creta o l'Italia. Due occhi spalancati alla fine della penisola della Messenia, vigilavano. Ripresa da Morosini nel 1686, Modone fu ripersa da Venezia con la seconda guerra di Morea con tutto il resto di questo regno effimero. Ma ancora oggi porta orgogliosa i segni di questo passato, decine di leoni costellano mura e baluardi, rondelle e torrioni che s'allungano com un corno verso la campagna. E sfiorando l'isola di Sapienza arrivando dal mare ne scorgo un altro, lassù, sulla torre. Ma non è tempo di nuove esplorazioni, un bagno nell'acqua trasparente e increspata dal vento che monta fuori e si riparte, Corone ci aspetta. Saranno una ventina di miglia di mare e di onda, navigati soprattuto di lasco. Si balla, si lavora, si evita di andare sotto per non finire sottosopra. Doppiando capo Gallo si comincia a cercare con lo sguardo la fortezza, ma è ancora lontana. Poi si profila, bastioni alti dieci quindici metri, a strapiombo, e le mura a correre intorno. E' uno spettacolo vederla dal mare, la dimensione più giusta per apprezzarne la forza. Ancoriamo nella baietta di fronte al villaggio di case bianche basse e finestre colorate, il molo antico lo stanno armando di nuovo di difese dalle acque ma è ancora inutile, troppo vicino alle scogliere. Il vento s'attenua solo alla sera, stiamo in barca, protetti ed esposti alla natura nello stesso tempo. Mi piace questa dimensione, anche se sono un po' goffo, quest'isola diventa presto la mia casa. Dormo da Dio e mi alzo all'alba, mi culla e mi dà energia. Arina inizia a piacermi, con le barche è un po' come per gli umani, bisogna annusarsi per capirsi e trovarsi. Provare, affidarsi. E' solida ma filante, comandi essenziali, senza avvolgi-troppo, respira bene al vento e la senti che vibra con le dita e i piedi. Ha una sua personalità, non indugia troppo sulla coperta all'ozio (e questo è un male, perché dormire da quelle parti è bello) ma sottocoperta t'accoglie bene, anche in sei, anche nelle cuccette che sembrano un po' abitacoli da Soyuz. E poi va anche oltre i suoi limiti, che dovrebbero essere 7-8 nodi, rimonta il vento. Ma quella sera soprattutto eravamo a posto.





mercoledì 27 luglio 2011

flash di viaggio. Modone, Corone, Mani, Pylos, Kythira

Kythira - anche qua un leone arrugginito sul fusto di un cannone
kythira - l'imponente castello di Chora

Kythira - callette nel villaggio di Chora
Kythira - Castello di Chora
Kythira - Castello di Chora, le mura in fish-eye
Capo Matapan - il temibile Capo Matapan è stato indulgente con noi regalandoci una dolce veleggiata
Mani, Porto Kaiyo - l'ultima spiaggia di questa penisola selvaggia
Kythira - l'entrata in porto (a sinistra il castello veneziano di Chora)
Mani - Santi subito!
Mani - Arina in navigazione verso capo Matapan
Pylos - La "mouza" di Constantino
Modone - l'entrata del magnifico castello veneziano
Modone - il leone che ride
Modone - leone sbrecciato
Modone - castello visto dalla torre turca
Modone - altro leone sulle mura. Venezia c'era davvero.
Modone - altro Leone mangiato dal mare e dal tempo. da notare la posizione delle ali, aperte come se volesse spiccare il volo.
Modone - la torre turca
Corone - il monastero di San Giovanni all'interno delle mura del castello veneziano
Corone - Un leone che batteva (e lo fa ancora) il tempo del monastero delle suore
Corone - un gran bel leone all'ingresso del castello
Corone - il torrione sbrecciato (forse dal Morosini durante la guerra di Morea?) visto dal mare
Corone - addio alle mura
Corone - altra visuale delle mura
Corone - un leone che forse era una fontana
Corone - le mura e le prime case del paese
Arina in navigazione, col morto

Pylos -Methoni - Koroni

24 luglio PILOS


"Ci hanno detto che dovevamo risparmiare e abbiamo fuso diversi comuni, ora Pylos è la capitale di tutta quest'area che comprende anche Methoni e Koroni, in pratica siamo passati da tremila a 21mila abitanti. Ma non abbiamo licenziato nessuno, solo spostato un po' di impiegati qui in città e mantenuto aperti gli uffici decentrati. Questo è kali kratis, il buon governo di Papandreu, uno che di socialista non ha più niente". Constantino Neratzoglou ha 58 anni, un passato da chimico in Cina e un presente da presidente della municipalità di Pylos - Nestor, una delle "creazioni" post crisi e pre default greco, uno di quei contentini fatti per ingraziarsi la Bce e l'Europa per far vedere che Atene e il resto dell'Ellade si stava ravvedendo imboccato il sentiero pietroso verso la virtù di bilancio. In pratica, hanno azzerato dei comuni senza ovviamente licenziare nessuno e moltiplicato le poltrone: ora c'è un sindaco per posto, in più un presidente di municipalità e via così. Insomma, siamo in piena tragicommedia. "Arriviamo all'assurdo che l'auto del nostro sindaco non può superare la cerchia del nuovo comune, l'autista deve chiedere l'autorizzazione alla prefettura del Peloponneso per poter uscire dai nostri confini", sorride amaro Constantino, capelli bianchi, corpulento e faccia aperta quasi senza rughe: "Ora la parola d'ordine è questo buon governo, ma come si fa a risparmiare, qui siamo in Grecia! - dice Constantino ricevendoci in delegazione grazie all'interessamento del Marco Polo System e del suo leader Piero Pettenò - le tasse non bastano per gestire i servizi pubblici e entro fine anno Atene ha chiesto a tutti i Comuni della Grecia di versare 500 milioni allo stato". Dopo il taglio degli stipendi del 10% e delle pensioni, la chiusura dei comuni, ora si è arrivati ai prestiti forzosi. Non vorrei che anche a Roma prendessero esempio dalla Grecia: una faccia, una razza di pasticcioni o peggio. "Siamo falliti e non lo sappiamo ancora - dice il presidente municipale che è iscritto a Nuova Democrazia, la destra greca - ti svegli e non sai i soldi che prenderai di stipendio". Questo è il quadro, e l'autunno sarà caldo: "Le proteste riprenderanno, oggi in piazza ci sono solo i taxisti, che sono contro la liberalizzazione delle licenze. Ma a settembre tornerà la protesta di piazza, il popolo non ce la fa più". E maledisce i potenti alla sua maniera, con la moutsa, la mossa: mani aperte spinte verso il nemico, andate via, ta' morti i cani.

In piazza la gente anima i bar, sorseggiando caffè e ouzu cercando riparo al sole implacabile. Ci si accontenta di poco in questo paesino ai confini del Peloponneso che vive sulla storia - la fortezza possente, la battaglia navale, il palazzo miceneo - in attesa di un boom turistico. In mattinata avevamo tentato uno stand up di fronte alle mura: trenta volte l'ho fatto, alla fine Pido era esausto e scoraggiato. Non sono fatto per la tv. Spero solo che venga cancellato, oppure accelerato tipo "le comiche", almeno si sdrammatizza il mio fallimento. E' che mi sembra di essere come quei giornalisti da tg, prima le loro facce della notizia. E la mia, di prima mattina, non è di certo il massimo dell'efficacia, soprattutto dopo 200 miglia in barca a vela e una sventolata di sole.

Constantino e il vice sindaco del comune di Nestore Pericles Kontogonis ci hanno organizzato un piccolo bus per visitare i due occhi della Repubblica, i castelli che per trecento anni hanno sorvegliato i traffici della Serenissima verso Creta: Modone e Corone. Due bastioni superbi, ingentiliti da una torre turca in mezzo al golfo di Methoni e da paesini ancora veraci. La cartolina sta dall'altra parte.

Ci tuffammo su Modone - Methoni al classico orario dei pirla, ore 12, sole a picco e gola riarsa. Ma era scattata la caccia al Leon. E ne trovammo diversi in quella fortezza secolare che si protende nel mare. Ce n'era uno con le ali spiegate, uno rampante, l'altro smozzicato e vecchio di 600 anni, un altro a giganteggiare sul bastione marino verso ovest, uno sopra una delle tante torri che spuntano sull'acqua del porto delle galee. Una meraviglia.

Corone - Koroni invece è più massiccio, le sue torri sorgono dal mare come scogli e le mura corrono sopra il paese e custodiscono un monastero di suore gentili che ci raccontano anche la leggenda della campana miracolosa regalata da San Giovanni. Vivono in cima alla rocca, tra un cimitero di croci bianche, fiori accesi e piante da frutto. Un piccolo paradiso di serenità e di refrigerio in mezzo a un caldo senza respiro. Salvarono me e il Pido da un'insolazione, regalandoci preziosi bicchieri di acqua fresca e anche una chiacchierata con due persone squisite: Dimitrios Kiriazis, presidente della locale associazione culturale, e Antonio Sarli, insegnate in pensione di Brindisi Montagna, provincia di Potenza: "Siamo gemellati con Koroni, quando i turchi conquistarono la città nella metà del 1500 una parte dei suoi abitanti si rifugiò in Basilicata, anche nel mio paese", racconta, facendoci poi da traduttore con Dimitrios, che ci racconta la storia del castello. "Il legame con Venezia è antico, è sempre stata custode della nostra libertà - racconta - portando sviluppo e ricchezza". E ora chi vi potrà salvare? "L'Italia", fa lui, sorridendo. Stai fresco nuovo amico: una faccia, stessa crisi. E una risata ci seppellirà tutti insieme. Meglio ammirare questi castelli d'altri tempi di dame e cavalieri.


Zante - Pilos

23 LUGLIO Zante - Pilos 62 miglia


L'alba è l'ora rossa della nostra mossa. Il sole sorge dietro i monti del Peloponneso mentre siamo già fuori dal porto arrugginito di Zante - Zacinto. Non fa caldo, ma, soprattutto, non c'è vento.

Motore è, e lo sarà per tutto quel lungo giorno annunciato dal disco aureo dietro il profilo incerto di Castel Tornese, sul continente a una decina di miglia. Si annuncia una giornata d'attesa, di noia, di ricordi, di nostalgie di casa, del Natale. Uno scorrere lento di ore allietate dalla lettura dell'Odissea, il canto di Telemaco che va a Pilos-Pylos per parlare col vecchio e saggio re Nestore, il prototipo della guida salda e gentile, il manifesto di una civiltà che voleva rispettati gli anziani. E che passava il tempo in ecatombi in onore degli dei, grandi mangiate di carne (il pesce ai tempi di Ulisse come di pochi decenni fa andava bene per i poveri o i naufraghi, le bistecche facevano status, come per le nostre mamme e nonne), altrettante bevute di vino mischiato ad acqua (era molto più forte del nostro, anche oggi quello cretese spara 15 gradi), giochi e danze. Era una civiltà fatta di grandi palazzi quella micenea che proprio nel Peloponneso aveva la sua capitale, imponente tutt'ora con le sue mura ciclopiche e la porta dei Leoni stranamente echeggiata solo da quella di Butrinto, in Albania, città citata nell'Eneide, non a caso, credo.

Sarà stata tutta quella carneficina modello Nestore raccontata in partenza, che in mezzo al mare, storditi dal sole e dal caldo e dal motore, la lenza si tese e spezzò la canna. Enrico, rapido come una pantera de Marghera, prese i resti e chiamò a raccolta l'equipaggio. Marco iniziò a recuperare, io non credevo, miscredente che ero. Caterina gridava: è un tonno, un tonno! Effettivamente, dopo una buona mezz'ora di manovre col timore di perdere la preda si profilò nell'acqua vicino alla barca: una bestia di una decina di chili, grigia e argentata. Marco la tira su, Il capitano la prende al raffio - il rampino tipo cacciatore di balene: il sangue nero si sparse per il gommone e il pozzetto quando viene tirato dentro. Si dibatteva la povera bestia che, ingorda, dalle profondità del mare, aveva adocchiato un pesce gustoso e trovato l'esca Rapala perfida e rutilante. L'amo gli si era conficcato in gola, fu difficile toglierlo. Si dibatteva, rivitalizzato dall'acqua del mare che ogni tanto gli tiravamo, non voleva morire, quasi a farci sentire in colpa per quella caccia fortunata. Non ci credevo ancora, un tonno vivo o quasi non l'avevo mai visto. Più che il sangue, furono gli occhi grandi e bovini a impressionarmi, una palla nera spalancata verso quel mondo che per lui era deserto, mortale. Ma non voleva morire. E allora a qualcuno venne in mente di versargli del liquore, trovammo del rum e glielo infilai in bocca. Un fremito assurdo, come da scossa elettrica lo prese e si liberò dalla presa di Enrico: sbatté la grande pinna sulla tolda e se ne andò per sempre il suo spirito. Ora c'era solo da non sprecare nulla di quella piccola ecatombe e da ringraziare la fortuna e gli dei per quel regalo dal mare. Enrico prese e iniziò a sezionarlo, togliendo prima le viscere e poi le branchie, tagliando le pinne laterali e iniziando a levargli ad accettate di coltellaccio le squame. Anche questo era un rito antico, di morte e vita. Che si concluse col taglio della testa e la selezione delle parti migliori. Due giorni ne mangiammo di quella bestia non a caso chiamata la vacca del mare. Tra tartare, padellato, bisteccato, sfamò sei persone in sontuoso banchetti (era squisito). Ma prima pulimmo la bestia e la barca di quel macello.

L'eccitazione e l'impressione per quella caccia e il resto ci aveva fatto attenti, frenetici. L'operazione era durata ore, ci sentivamo però più vivi. E quando arrivò l'isoletta di Proti col suo piccolo monastero e la scogliera e l'acqua trasparente fino al fondale dieci metri più sotto fu naturale gettare l'ancora. Ma mentre cercavamo il giusto fondale il lamento disperato di una capretta ci ricordò il sacrificio appena compiuto. Dei pastori trascinavano delle giovani bestie giù per una passerella fino a una barchetta. Quelle povere belavano disperate per timore dell'acqua, dell'ignoto, o solo per paura. Due compagne più vecchie stavano sulla scogliera a guardare ben lontane dal poter essere cacciate, sicure in cuor loro di averla scampata. I pescatori riuscirono a completare l'opera e ci salutarono. Noi ricambiammo e trovammo un ancoraggio buono e un tuffo ancora migliore. Poi riprendemmo a navigare verso Pilos e la costa del Peloponneso, che ormai distava poco, una decina di miglia, e s'annunciò con un vecchio castello in cima a una scogliera che fu franco e poi veneziano. Degli stupendi faraglioni rotti solo da un arco naturale fermavano il mare proteggendo la grande baia di Navarino dove la Grecia nel 1827 divenne indipendente grazie alla distruzione di una flotta turca da parte delle potenze amiche di Francia, Gran Bretagna e Russia. Doppiata l'isoletta di Sfatkiria, si stagliò la superba fortezza nuova, di pianta decisa, dominata da un bastione e da una chiesa che fu moschea. Qui Venezia arrivò nel 1685 e restò per soli trent'anni, una parentesi tra secoli di dominazione ottomana. La cittadina si apre subito dopo attorno a una grande piazza quadrata dominata da platani centenari (i greci amano le piante perché portano ombra, non come noi che le tagliamo come intralcio alla modernità) e circondata da palazzi sobri e con qualche tocco elegante. Tutt'altra storia rispetto a Zante. Peccato che la marina sia ancora abbandonata a metà, senza servizi. Ma va bene così, un buon approdo per i pellegrini del mare. E ne scoprimmo diversi all'ormeggio gratuito da chissà quanto tempo, barche disarmate per armatori squattrinati. Persi. Dimenticati. Il giorno dopo avremmo scoperto un nuovo slogan: kali kratis, buon governo. Tradotto: tagli ai comuni e fondi per risparmiare e far contenta l'Europa. Virtuosi e con le tasche vuote. Come quei marinai persi a Pilos, anche la Grecia s'era ormeggiata a Bruxelles sperando di non affondare.


domenica 24 luglio 2011

ITACA - ZACINTO

Gran vento da Ovest Nord Ovest poi passao a Ponente, anche più di 25 nodi, grande navigazione sopra i 7, oggi si vola tra due poeti e una barca che ha sempre più il suo perché. Arina chi era costui? Una fanciulla greca, credo. Ma questa è già un'altra storia, che arriverà alla fine di questa grande galoppata verso la terra di Ugo, who's Ugo? Ma Foscolo, e chi altro! Ma questo è stato un altro gioco finito in fortezza, quella grande testuggine coperta di pini che non si vede dal mare maraggiungiamo dopo un pomeriggio di vagabondaggio in una città moderna e anonima, rinata (male) dopo il terremoto del 1953. E per fortuna che una statua piangente e una ragazza adorante ci liberano dal gusto sadico che qui, come in Italia, nessuno conosca quel giovane poeta nato veneziano e morto non ancora italiano. La fortezza invece è una scoperta, anche perché ci sono entrato scavalcando dalla parte della parete di tufo a strapiombo. E' grande, irta, poderosa, come quelle gemelle di Corfù e di Nauplia, solo che in maniera stupefacente non si vede, non disegna la montagna che domina la baia e la città. Eppure sono alte le sue mura, e, soprattutto, chiuse. Anche se un leone rampante ne disgna il bastione che protegge la porta. Dentro, i resti di altri eserciti: britannici, tedeschi, punteggiano il pianoro. Il problema è scendere a valle. All'andata ci siamo arrangiati come signori del XIX secolo, in carrozza. Ma lo sciopero dei taxi - da giorni bloccano passaggi e strade di mezza grecia - ci obbliga a cendere a piedi. Pido si rilella: possiamo mangiare qui. Ma come? In questi ristoranti da turisti? No, lo blocco, si va a piedi. Mugugna, ma s'adegua, trenta metri dietro e 20 kg di attrezzatura video in spalla: "Io mi lamento ma non mollo". Un duro dal cuore tenero. Tre chilomeri abbiamo fatto, per fortuna in discesa, prima di ritrovare barca, uova sode, porto e viaggio.





Lefkadas - Ithaka

L'alba è passata da poco e già ci si muove, chi l'avrebbe mai detto un Crema mattiniero! Ma c'è Pido che mi sfida e mi stimola, lui ogni giorno ceca di catturare la luce migliore, quella che ha fatto immortale la Grecia. Arrivo alla fortezza con lui che è giù a caccia di leoni ed esploro i bastioni conquistati da Morosini nell'ultima campagna di conquista della Serenissima in Morea, quando Venezia tentò di sentirsi ancora potenza mediterranea. Il grappolo di cannoni arrugginiti buttati a fianco del ponte d'entrata nella fortezza testimoniano bene quanto fosse folle quell'ultimo volo. Il rumore di una barca a vela mi distoglie da questi grevi pensieri, c'è un pescatore sulla sessantina pelato e con gli occhilai da ragioniere che entra nello spazio d'acqua antistante alla fortezza e ormeggia. Questa è casa sua. Si accende una sigaretta e inizia a sfilare la rete, mossa antica, sempre uguale, imperitura e anche stanca, come questa pesca che definisce lui scarsa. Butta i pesci piccoli in mare con dispetto. La sua barca è di legno e povera, un guscio che non piuò affrontare tante altre battaglie. Più avanti, quando le mura si alzano e la baia si apre dove un tempo ospitava le galee veneziane un altro pescatore arranca verso terra, più giovane, più deciso. La moglie è venuto a prenderlo in riva, e inizia ad aiutarlo a lavorare le reti, a cercare il pesce pescato. Spunta anche il loro bimbo biondo che s'arrampica sulla cima per curiosare in barca. Il tempo già stringe, c'è Itaca da conquistare ma un bagno ci vuole. La spiaggia è fequentata da vecchi ed è di sassi, il mare affonda subito in un colore turchino che sa di magia e rinascita.

Partiamo quando il sole non brucia ancora, entriamo nel canale di Leucade, infido e stretto come un Corinto di sabbia. Sono al timone, parliamo di Saffo e mi distraggo e rischio di buttare la barca in secca come un Fantozzi qualsiasi, il capitano mi riprende e riprendiamo il trotto in quel canale che s'allunga per tre miglia nella palude salmastra tra boe di segnalazione, banchi di sabbia e moli sommersi. La collina di fronte sopra Leucade - Lefkas conserva le tracce di un'antica città micenea, la fine di questo budello è sorvegliata da una fortezza merlata che era veneziana e poi turca e prima chissà bizantina, il solito guazzabuglio delle storie che sembrano ogni volta decisive e poi sterzano senza preavviso, come un terremoto, quello che a Zante cancellò l'architettura veneziana dalla città che diede i natali a Foscolo. Who's he? Già, chi è costui? Ma cerchiamo il vento nel mare aperto finalmente in baia e arriva, arriva. Prima da Sud Est e poi, man mano scivoliamo sotto Leucade e verso Meganisi e Skorpios, l'isola di Onassis, cambia in Maestrale. E la nostra barca inizia a galoppare quasi liberata finalmente da questo vento sui 15 - 20 nodi che monta sempre di più portandoci di volata verso Itaca, l'isola di Ulisse piena di sole e rocciosa, terra di capre. ma è la sua patria.

E' stata una liberazione quel bordo lungo quasi un pomeriggio, quel viaggio veloce e leggero come il volo di un un gabbiano tra terre che ben presto all'orizzonte restano solo come montagne o scogli, poco più di un abbozzo sulla distesa blu del mare straniero. E' una magia che ogni tanto si rinnova quella che stavamo vivendo, un tocco di fortuna perché è sempre il fato a governare chi vuole andar per mare col vento. E quel momento ce n'era, tanto da farci viaggiare sui 6 - 7 nodi. Unico inghippo, Frikes non ci è permessa, la raggiungeremo domani, per terra, con un umile mulo moderno, uno scooter Piaggio che alla salita più dura obbligava a smontare Pido. Nemmeno Kioni è raggiungibile, il capriccio del vento ci indirizza a Vathi, la capitale dell'isola cara ad Atena, una cittadina adagiata sulla grande baia che raggiungi solo dopo un budello nell'isola strozzata a mezzo e legata dal monte Aetos. Arriviamo col sole ancora alto e la terra leggendaria netta nel suo profilo punteggiato dai vecchi mulini che sembrano torri. L'entrata in porto dal golfo di Molo è sorvegliata anche da un bastione perso in mezzo alla sterpaglia, poco più un abbozzo che il giorno dopo scopiremmo ospitare due cannoni, uno dei quali veneziano. E' un leone in moeca che ne decora il fusto ancora ben conservato, alla sua destra tiene una spada, alla sinistra una croce che potrebbe essere anche un tridente da Nettuno, il grande nemico di Ulisse. Ormeggiamo davanti alla trattoria sotto il montarozzo Ketalo in una delle tante marine semi abbandonate che punteggiano le coste e le isole greche, testimonianze di una voglia di turismo che si è infranta sul concreto. Troppe illusioni dietro le ultime olimpiadi, e altrettante truffe.