mercoledì 27 luglio 2011

Zante - Pilos

23 LUGLIO Zante - Pilos 62 miglia


L'alba è l'ora rossa della nostra mossa. Il sole sorge dietro i monti del Peloponneso mentre siamo già fuori dal porto arrugginito di Zante - Zacinto. Non fa caldo, ma, soprattutto, non c'è vento.

Motore è, e lo sarà per tutto quel lungo giorno annunciato dal disco aureo dietro il profilo incerto di Castel Tornese, sul continente a una decina di miglia. Si annuncia una giornata d'attesa, di noia, di ricordi, di nostalgie di casa, del Natale. Uno scorrere lento di ore allietate dalla lettura dell'Odissea, il canto di Telemaco che va a Pilos-Pylos per parlare col vecchio e saggio re Nestore, il prototipo della guida salda e gentile, il manifesto di una civiltà che voleva rispettati gli anziani. E che passava il tempo in ecatombi in onore degli dei, grandi mangiate di carne (il pesce ai tempi di Ulisse come di pochi decenni fa andava bene per i poveri o i naufraghi, le bistecche facevano status, come per le nostre mamme e nonne), altrettante bevute di vino mischiato ad acqua (era molto più forte del nostro, anche oggi quello cretese spara 15 gradi), giochi e danze. Era una civiltà fatta di grandi palazzi quella micenea che proprio nel Peloponneso aveva la sua capitale, imponente tutt'ora con le sue mura ciclopiche e la porta dei Leoni stranamente echeggiata solo da quella di Butrinto, in Albania, città citata nell'Eneide, non a caso, credo.

Sarà stata tutta quella carneficina modello Nestore raccontata in partenza, che in mezzo al mare, storditi dal sole e dal caldo e dal motore, la lenza si tese e spezzò la canna. Enrico, rapido come una pantera de Marghera, prese i resti e chiamò a raccolta l'equipaggio. Marco iniziò a recuperare, io non credevo, miscredente che ero. Caterina gridava: è un tonno, un tonno! Effettivamente, dopo una buona mezz'ora di manovre col timore di perdere la preda si profilò nell'acqua vicino alla barca: una bestia di una decina di chili, grigia e argentata. Marco la tira su, Il capitano la prende al raffio - il rampino tipo cacciatore di balene: il sangue nero si sparse per il gommone e il pozzetto quando viene tirato dentro. Si dibatteva la povera bestia che, ingorda, dalle profondità del mare, aveva adocchiato un pesce gustoso e trovato l'esca Rapala perfida e rutilante. L'amo gli si era conficcato in gola, fu difficile toglierlo. Si dibatteva, rivitalizzato dall'acqua del mare che ogni tanto gli tiravamo, non voleva morire, quasi a farci sentire in colpa per quella caccia fortunata. Non ci credevo ancora, un tonno vivo o quasi non l'avevo mai visto. Più che il sangue, furono gli occhi grandi e bovini a impressionarmi, una palla nera spalancata verso quel mondo che per lui era deserto, mortale. Ma non voleva morire. E allora a qualcuno venne in mente di versargli del liquore, trovammo del rum e glielo infilai in bocca. Un fremito assurdo, come da scossa elettrica lo prese e si liberò dalla presa di Enrico: sbatté la grande pinna sulla tolda e se ne andò per sempre il suo spirito. Ora c'era solo da non sprecare nulla di quella piccola ecatombe e da ringraziare la fortuna e gli dei per quel regalo dal mare. Enrico prese e iniziò a sezionarlo, togliendo prima le viscere e poi le branchie, tagliando le pinne laterali e iniziando a levargli ad accettate di coltellaccio le squame. Anche questo era un rito antico, di morte e vita. Che si concluse col taglio della testa e la selezione delle parti migliori. Due giorni ne mangiammo di quella bestia non a caso chiamata la vacca del mare. Tra tartare, padellato, bisteccato, sfamò sei persone in sontuoso banchetti (era squisito). Ma prima pulimmo la bestia e la barca di quel macello.

L'eccitazione e l'impressione per quella caccia e il resto ci aveva fatto attenti, frenetici. L'operazione era durata ore, ci sentivamo però più vivi. E quando arrivò l'isoletta di Proti col suo piccolo monastero e la scogliera e l'acqua trasparente fino al fondale dieci metri più sotto fu naturale gettare l'ancora. Ma mentre cercavamo il giusto fondale il lamento disperato di una capretta ci ricordò il sacrificio appena compiuto. Dei pastori trascinavano delle giovani bestie giù per una passerella fino a una barchetta. Quelle povere belavano disperate per timore dell'acqua, dell'ignoto, o solo per paura. Due compagne più vecchie stavano sulla scogliera a guardare ben lontane dal poter essere cacciate, sicure in cuor loro di averla scampata. I pescatori riuscirono a completare l'opera e ci salutarono. Noi ricambiammo e trovammo un ancoraggio buono e un tuffo ancora migliore. Poi riprendemmo a navigare verso Pilos e la costa del Peloponneso, che ormai distava poco, una decina di miglia, e s'annunciò con un vecchio castello in cima a una scogliera che fu franco e poi veneziano. Degli stupendi faraglioni rotti solo da un arco naturale fermavano il mare proteggendo la grande baia di Navarino dove la Grecia nel 1827 divenne indipendente grazie alla distruzione di una flotta turca da parte delle potenze amiche di Francia, Gran Bretagna e Russia. Doppiata l'isoletta di Sfatkiria, si stagliò la superba fortezza nuova, di pianta decisa, dominata da un bastione e da una chiesa che fu moschea. Qui Venezia arrivò nel 1685 e restò per soli trent'anni, una parentesi tra secoli di dominazione ottomana. La cittadina si apre subito dopo attorno a una grande piazza quadrata dominata da platani centenari (i greci amano le piante perché portano ombra, non come noi che le tagliamo come intralcio alla modernità) e circondata da palazzi sobri e con qualche tocco elegante. Tutt'altra storia rispetto a Zante. Peccato che la marina sia ancora abbandonata a metà, senza servizi. Ma va bene così, un buon approdo per i pellegrini del mare. E ne scoprimmo diversi all'ormeggio gratuito da chissà quanto tempo, barche disarmate per armatori squattrinati. Persi. Dimenticati. Il giorno dopo avremmo scoperto un nuovo slogan: kali kratis, buon governo. Tradotto: tagli ai comuni e fondi per risparmiare e far contenta l'Europa. Virtuosi e con le tasche vuote. Come quei marinai persi a Pilos, anche la Grecia s'era ormeggiata a Bruxelles sperando di non affondare.


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